“Vorrei star bene a scuola” prima di essere un libro è stata una due giorni di convegni, tavole rotonde, workshop, laboratori tenutisi a Firenze. Da qui i diversi contributi compresi nel volume, eterogenei tra loro ma uniti da quel filo rosso che è il benessere della persona. E dal momento che i ragazzi passano molto tempo della loro vita a scuola, non si può non partire dalla domanda “Cosa vuol dire star bene a scuola?” Domanda a cui i diversi contributi tentano di rispondere da prospettive diverse, chiamando in causa tutti i protagonisti della scuola: insegnanti, studenti, genitori, tecnici, ciascuno nel rispetto del proprio ruolo e delle proprie e altrui competenze. Si tratta di “fare rete”, mettere in relazione tra loro i diversi “contenitori” in cui avviene lo sviluppo personale e sociale dei bambini e dei ragazzi (famiglia, scuola, servizi sanitari, servizi sociali), partendo dall’assunto che una tale complessità di contesti e relazioni è in realtà una possibilità di tutela.
Una menzione particolare merita il tema dei ragazzi con bisogni educativi speciali (BES): non si tratta solo di disabilità, ma anche di stili cognitivi differenti e dunque differenti stili di apprendimento. Questi ragazzi ci ricordano come in realtà siamo tutti diversi tra noi, e come diversi stili di apprendimento richiedano diversi stili di insegnamento. In questo senso “tutti [gli] studenti hanno bisogni educativi speciali, perché tutti sono speciali!” Così “da alcuni anni, esperti internazionali stanno delineando le ragioni che spingono a passare dall’insegnamento uniforme […] a un insegnamento personalizzato, articolato attorno ai bisogni, agli interessi e alle attitudini di ogni studente”. In questa prospettiva l’ultimo capitolo del libro entra “nel profondo delle discipline”, nello specifico dell’insegnamento della matematica e delle lingue straniere, mostrandoci cosa significhi tutto ciò nella concretezza della didattica. Perché ricordiamolo: anche lo studente “normodotato” o “ecellente” con stili e modalità di apprendimento diversi può sentirsi inadeguato e insoddisfatto e dunque “non stare bene a scuola”. E qui torniamo al punto di partenza, a quello “stare bene” che per i ragazzi (ma anche per gli insegnanti, in primis e per tutte le figure che si incontrano nel “contesto scuola” come genitori, tecnici, ecc.) è al contempo conseguenza e prerequisito dell’imparare bene e insegnare bene.